«Quello che sta succedendo – scrive Marco Castaldo – mette tutti in condizioni di provare ciò che centinaia di migliaia di persone con disabilità gravi e gravissime provano ogni giorno della loro vita: l’immobilità, e non solo quella fisica, provocata dalla disabilità o dalla malattia, ma l’impossibilità di poter uscire, avere una vita partecipata, a causa del contesto e delle limitazioni ambientali rappresentate dalle barriere architettoniche, psicologiche e culturali. Persone che potrebbero essere utili per se stesse e per la società, ma che invece esistono solo nei costi del welfare».
In tempi di quarantena si comprende ancor meglio quanto il tempo sia una
convenzione umana. Esso si dilata e si restringe a seconda della condizione in
cui ci troviamo.
In questi giorni – forse succede anche a voi – ci sono momenti in cui pare che
le ore siano interminabilmente lunghe, altri invece in cui è subito sera. Oggi,
ad esempio, tutto scorre molto in fretta, troppo in fretta, tanto da rendermi
conto che il troppo tempo passato ad incamerare informazioni, a leggere e a
scrivere sui social, non permettono alla mente di discernere esattamente
l’utile dall’inutile.
C’è un aspetto, però, che mi fa riflettere, leggendo i lunghi, appassionati, a
volte livorosi, interventi sui social riguardo la legittimità, l’importanza e
la necessità assoluta di poter svolgere attività fisica anche in tempo di
coronavirus.
Per me è incomprensibile che persone, alcune delle quali anche dotate di
intelletto, antepongano il proprio diritto individuale alle necessarie
restrizioni imposte dall’emergenza. Ci sarebbe molto da dire a riguardo, ma io
mi voglio soffermare sul fatto che il coronavirus dimostra ancora una volta di
avere dei pregi, per chi sa comprenderli.
In questo caso mette tutti in condizioni di provare ciò che centinaia di
migliaia di persone con disabilità gravi e gravissime provano ogni giorno della
loro vita: l’immobilità. Non solo l’immobilità fisica causata dalla disabilità
o dalla malattia, ma l’impossibilità di poter uscire, socializzare, avere una
vita partecipata a causa del contesto e delle limitazioni ambientali
rappresentate dalle barriere architettoniche, psicologiche e culturali di
questa nostra società.
Una moltitudine di persone, non una semplice percentuale, un numero, che vive
in case private, residenze per anziani o disabili, in contesti familiari
difficili sia dal punto di vista economico, piuttosto che psicologico e/o
relazionale.
Persone abituate a giornate tutte uguali, senza sole, senza pioggia, senza
imprevisti, spesso senza svago, talvolta addirittura senza interessi. Persone
che potrebbero essere diverse, essere utili per se stesse e per la società in
cui vivono, ma che invece sono trasparenti, esistono solo nelle percentuali,
nei costi di un welfare che non solo non è adeguato, ma che non rispetta la
dignità dell’uomo e il diritto di vivere una vita compiuta che dev’essere
assicurato a tutti i membri di una società evoluta, democratica e giusta.
Ecco, se oggi vi sentite privati delle vostre libertà, non potendo fare la
corsetta salutare per il vostro benessere psicofisico, allora state provando la
stessa sensazione, o quasi, di molte altre persone che, invece, molto spesso
non hanno neanche la libertà di scegliere quando farsi una doccia.
Dura la vita, vero?
Di Marco Castaldo Superando.it
del 24.03.2020
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