Anche le Nazioni Unite lanciano l’allarme sulle scelte che tendono a privilegiare chi ha maggiori speranze di sopravvivere. Il dilemma dei medici.
«Allora guai a tutti noi, quando saremo vecchi e decrepiti! Se si possono
sopprimere esseri improduttivi, allora guai agli invalidi…». Son passati
quasi ottant’anni da quel 3 agosto 1941 in cui il vescovo Clemens Von Galen, il
Leone di Münster, scagliò la sua formidabile invettiva contro la selezione
genetica dei disabili avviata da Hitler e spacciata per «concessione d’una
morte pietosa» alle «vite indegne di essere vissute». E nessuno ha mai più
osato teorizzare, ovvio, nulla di simile.
C’è un’inquietudine crescente, però, tra gli anziani e i «figli di un dio
minore» in tutto il pianeta, davanti alla rassegnazione, diciamo così,
manifestata davanti alla ineluttabilità delle scelte «di guerra» imposte
dall’onda assassina e dilagante del coronavirus. Scelte che la Siaarti, Società
italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva, ha spiegato
con parole sofferte ma inequivocabili: a fronte di «un enorme squilibrio tra le
necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di
risorse intensive (…) ogni medico può trovarsi a dover prendere in breve
tempo decisioni laceranti da un punto di vista etico oltre che clinico: quali
pazienti sottoporre a trattamenti intensivi quando le risorse non sono
sufficienti per tutti i pazienti che arrivano, non tutti con le stesse chance
di ripresa» e occorre «privilegiare la “maggior speranza di vita”».
Una tesi patita come sale sulle piaghe dalla Ledha (Lega Diritti Handicappati)
e dal Forum del Terzo Settore che parlano di una «strage degli innocenti» e
accusano: «Non vi è nulla di naturale in questa scelta crudele di sacrificare
le persone più fragili, illudendosi così di salvare quelle più forti. Con le
loro vite stiamo sacrificando anche la nostra dignità, la dignità di ognuno di
noi».
Vale per l’Italia, dove resterà nei ricordi di tutti il racconto angosciato
dell’anestesista Christian Salaroli a Marco Imarisio: «Se una persona tra gli
80 e i 95 anni ha una grave insufficienza respiratoria, verosimilmente non
procedi. Se ha una insufficienza multiorganica di più di tre organi vitali,
significa che ha un tasso di mortalità del cento per cento. Ormai è andato…».
Vale per la Francia dove il «Plan Blanc» dell’ospedale di Perpignan, come ha
scritto la rivista on-line Médiapart, ha definito quattro tipi di decessi: le
«morti inevitabili» dovute alla gravità della malattia al di là di ogni risorsa
terapeutica, quelle «evitabili» con le cure migliori, quelle «accettabili» dei
pazienti molto vecchi e poli-patologici e quelle «inaccettabili» di giovani
senza altre patologie: «L’obiettivo prioritario è lo 0% di morti
inaccettabili», quello secondario «limitare le morti evitabili». E quelle
«accettabili»? Amen, avrebbe risposto 19 giorni fa il premier britannico Boris
Johnson, prima di far dietro-front davanti all’abisso, quando teorizzò
l’«immunità di gregge» invitando gli inglesi a prepararsi a vedere «molti dei
loro cari morire prima che sia giunta la loro ora».
NEGLI USA.
«Meno ventilatori per le persone con grave ritardo mentale o demenza avanzata».
Ancora più allarmanti, però, sembrano i percorsi imboccati negli Usa davanti
alla paura di un’ondata di piena: «A chi vale la pena di salvare la vita? Nello
Stato di Washington le persone disabili temono di esser tagliate fuori», titolava
giorni fa il New York Times. «Fra i circa trentasei Stati che hanno reso noti i
loro criteri, una decina elenca anche considerazioni di tipo intellettivo, e
altri parlano di condizioni precise che possono portare alla discriminazione
nei confronti dei disabili», ha spiegato su Avvenire Elena Molinari. Esempi?
«In Tennessee le persone affette da atrofia muscolare spinale verranno escluse
dalla terapia intensiva. In Minnesota saranno la cirrosi epatica, le malattie
polmonari e gli scompensi cardiaci a togliere ai pazienti affetti da Covid-19
il diritto a un respiratore. Il Michigan darà la precedenza ai lavoratori dei
servizi essenziali». Per non dire dell’Alabama dove, accusa Amy Silverman di
ProPublica, «il piano afferma che le persone con grave ritardo mentale, demenza
avanzata o gravi lesioni cerebrali traumatiche possono essere candidati
improbabili per il supporto del ventilatore».
Quanto basta per fare dire alla relatrice delle Nazioni Unite sui diritti dei
disabili, Catalina Devandas, che «le persone con disabilità devono avere la
garanzia che la loro sopravvivenza sia considerata una priorità» e che gli
Stati devono varare «protocolli per le emergenze di salute pubblica al fine di
garantire che, quando le risorse mediche sono limitate, le persone con
disabilità non siano discriminate nell’accesso alla salute». «Quello che stiamo
vedendo qui», dice Ari Ne’eman, fondatore dell’Autistic Self Advocacy Network,
«è uno scontro tra la legge sui diritti della disabilità e la spietata logica
utilitaristica».
Parole dure. Tanto più in un Paese come gli Stati Uniti che ha una lunga e
brutta storia di discriminazione nei confronti dei disabili mentali. Basti
ricordare che, dopo la prima legge eugenetica del 1907 nell’Indiana (un quarto
di secolo prima di quelle naziste), furono via via ben ventinove gli Stati
americani promotori di norme di ingegneria eugenetica volte a selezionare una
razza migliore. O che perfino la Virginia arrivò a dichiarare incostituzionali
le proprie leggi sulla sterilizzazione solo nel 1979 e a riconoscere un
risarcimento alle vittime, dopo due bocciature nel 2013 e 2014, solo nel 2015.
Sette decenni dopo il processo di Norimberga ai medici hitleriani. Segno d’una
riflessione monca sugli errori compiuti.
GARANZIE.
L’Onu chiede garanzie: la sopravvivenza delle persone con disabilità sia vista
come priorità.
Va da sé che quell’inquietudine tra i disabili e i vecchi («I vecchi sono
esseri umani? A giudicare dal modo in cui sono trattati nella nostra società è
lecito dubitarne», scrisse Simone de Beauvoir) è cresciuta sempre più, in
queste settimane, anche dentro la Chiesa. Lo prova la nota «Pandemia e
fraternità universale» della Pontificia Accademia per la Vita presentata
l’altro ieri al Papa. Dove si riconosce che sì, «le condizioni di emergenza in
cui molti Paesi si stanno trovando possono arrivare a costringere i medici a
decisioni drammatiche e laceranti di razionamento delle risorse limitate non
contemporaneamente disponibili per tutti». Ma «a quel punto, dopo aver fatto il
possibile sul piano organizzativo per evitare il razionamento, andrà sempre
tenuto presente che la decisione non può basarsi su una differenza di valore
della vita umana e della dignità di ogni persona, che sono sempre uguali e
inestimabili». Una tesi tutta dentro la battaglia che papa Francesco combatte
da anni contro la cultura dello scarto.
Di Gian Antonio Stella da Il Corriere della Sera del 01.04.2020
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