La Chiesa oggi deve esprimersi in modo ancor più chiaro circa questi fratelli e sorelle. L’innovativa riflessione teologica del giovane gesuita Justin Glyn pubblicata sul numero in uscita il 4 gennaio della prestigiosa rivista che festeggia i 170 anni di vita.
La Civiltà Cattolica compie 170 anni. Il primo fascicolo fu stampato a
Napoli il 6 aprile 1850. Per festeggiare l’evento, il Papa ha inviato al
direttore della prestigiosa rivista un messaggio scritto di suo pugno,
pubblicato sulla copertina del primo fascicolo di gennaio 2020 della rivista,
che esce sabato 4 gennaio (anticipato in parte in questi giorni anche sul sito
www.laciviltacattolica.it). Sfogliare la raccolta dei 4.069
“quaderni” pubblicati fino a oggi significa percorrere la storia
contemporanea, entrando nelle sue pieghe e nelle sue ragioni. La Civiltà
Cattolica oggi è diventata una “rivista internazionale dei gesuiti” per il suo
sguardo ampio, perché dall’aprile 2017 è pubblicata in 5 lingue e perché dal
febbraio 2018 il collegio degli scrittori si è allargato grazie a un gruppo di
12 “corrispondenti” da tutto il mondo.
Qui di seguito pubblichiamo, per gentile concessione del direttore padre
Antonio Spadaro, ampi stralci dell’articolo su La disabilità nella Chiesa.
L’autore è Justin Glyn, un giovane gesuita, disabile, teologo e canonista,
docente di Diritto canonico al Catholic Theological College di Melbourne
(Australia).
La retorica dell’inclusione, che governi e altri attori sociali hanno adottato
in relazione alla disabilità, maschera una realtà più deludente. La nostra
Chiesa cattolica vanta una lunga e considerevole teologia e storia della
dottrina sociale. Anche per questo oggi è chiamata ad esprimersi in modo più
chiaro sui diritti delle persone con disabilità. Pochi cattolici disabili sono
stati coinvolti nella teologia della disabilità; di conseguenza, la nostra
esperienza vissuta non è entrata a far parte dell’autocomprensione della
Chiesa. (…)
Peccatori o benedetti? la concezione (contraddittoria) della disabilità nella
Chiesa .
Le dichiarazioni ufficiali della Chiesa in questa materia si sono mosse tra due
estremi scomodi, a volte anche in uno stesso documento. Da una parte, si è
vista la disabilità come una conseguenza del peccato originale, sostenendo che
a causa di esso l’immagine di Dio era stata «oscurata» nelle persone disabili.
Dall’altra parte, si è sostenuto che le persone con disabilità, lungi
dall’essere segni della peccaminosità umana, sono state benedette più di
chiunque altro, avendo ricevuto la grazia di soffrire per tutti. Nessuna delle
due posizioni corrisponde all’esperienza vissuta della maggior parte di noi che
siamo disabili. La disabilità ha luogo in tutte le forme e misure possibili. Le
nostre vite sono variegate come quelle di chiunque altro. Pertanto, come
possono le recenti tendenze della teologia cattolica e della dottrina sociale
offrire un terreno più saldo, in generale, su cui basarsi per parlare della
disabilità con la Chiesa e con il mondo? E come possono farci capire che le
persone con disabilità e quelle senza sono, insieme, un «noi» piuttosto che un
«loro»? (…)
La disabilità come segno della solidarietà di Cristo con noi.
Il primo insegnamento sulla disabilità che ci viene offerto da questi misteri
riguarda la solidarietà di Gesù con noi nella vita che ha assunto in quanto
uomo. Cristo non soltanto ha preso su di sé i limiti umani, ma si è
concretamente identificato con quel corpo assunto nella sua sofferenza e nella
sua morte. I Vangeli e Paolo sottolineano la straordinaria affermazione di
Cristo secondo la quale il suo corpo esiste non nella totalità, ma nello
spezzare il pane (cfr Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19; 1 Cor 10,16 e 1 Cor 11,24).
Ed è proprio in questo gesto dello «spezzare» che i discepoli riconoscono Gesù
a Emmaus (cfr Lc 24,30-31). Come scrive Nancy Eiesland: «Nel presentare le sue
mani e i suoi piedi menomati […] Gesù risorto si rivela come il Dio disabile.
Gesù, il Salvatore risorto, invita i suoi compagni spaventati a riconoscere nei
segni della menomazione il loro legame con Dio, la loro salvezza» . Quindi la
disabilità è davvero un segno di quanto sia profonda la solidarietà di Cristo
con la condizione umana, e un segno che le nostre menomazioni sono le sue…
La Gaudium et spes, pur non menzionando in modo specifico la disabilità, parla
del modo in cui la vita e la morte di Cristo hanno già trasfigurato la vita e
la morte, dando ad esse un nuovo significato (cfr GS 54). Alcuni obiettano che
questa idea di un Dio disabile si applica meglio alla menomazione fisica che
non a quella mentale: possiamo davvero ritenere che nelle persone con disabilità
intellettiva risalti il ritratto di un Dio onnisciente? Questo però non
costituisce affatto un problema. La menomazione è una limitazione. Cristo, in
virtù dell’umanità che assumeva, doveva diventare un essere umano particolare.
Tuttavia, nel divenire un concreto essere umano, con tutti i suoi limiti e le
sue menomazioni – tra cui il limite più significativo, la morte –, egli si fa
solidale con tutti, indipendentemente da quale forma particolare di umanità
essi vivano, comprese le loro menomazioni e altre limitazioni. Divenendo uno di
noi, Cristo è divenuto tutti noi….
Riconosciamo la scomoda verità che la malattia, le ferite e le menomazioni sono
elementi costitutivi della condizione umana. Molte persone disabili usano
l’espressione «temporaneamente abili» per riferirsi a coloro i cui corpi e le
cui menti attualmente non sembrano discostarsi da una norma immaginaria. Ogni
essere umano, quando nasce, ha capacità limitate (per esempio, non è in grado
di camminare, è incontinente, è ipovedente) e, se ha la fortuna di vivere
abbastanza a lungo, farà esperienza di qualche menomazione. La solidarietà di
Cristo con chi è menomato riguarda «noi», non «loro». Eppure nulla di tutto ciò
ha impedito a Gesù di prendere tutto su di sé, in prima persona. Così Cristo è
in mezzo a noi, assumendo il nostro corpo menomato, mutilato e torturato,
mostrandoci le sue ferite proprio nel momento del suo trionfo sul limite umano
definitivo, che è la morte. La sua menomazione conferma e riflette la potenza
di Dio…
La disabilità come segno della vita divina a cui siamo chiamati.
Il secondo segno che la disabilità e le menomazioni rappresentano si riferisce
alla vita a cui siamo chiamati. La vita della Trinità, alla quale Cristo ci
chiama, è sempre stata intesa come relazione. Sant’Agostino e i mistici
medievali la concepivano in termini di amore, dove il Padre è l’Amante, il
Figlio è l’Amato, e lo Spirito Santo è l’Amore che danza tra loro e ci
introduce più profondamente nella loro comunione. Ne consegue che per noi
cristiani anche la nostra vita futura nella Trinità dev’essere relazionale.
Siamo sociali e socievoli. La Chiesa viene giustamente descritta come il
«popolo di Dio». Non siamo esseri solitari, destinati a una vita di isolamento.
Il Catechismo, i documenti del Concilio Vaticano II e la dottrina cattolica
insistono sul fatto che la vita divina che si realizzerà nella visione
beatifica consiste in una comunione piuttosto che in un’autosufficienza. La
menomazione e la disabilità, che derivano dal fallimento della società
nell’accoglierle, ci ricordano continuamente questa interdipendenza. Fatto sta
che le persone disabili hanno bisogno di aiuto, spesso per le esigenze più
fondamentali. D’altra parte, anch’esse possono offrire aiuto, a volte con la
loro stessa presenza, altre volte in modi più evidenti, e perfino straordinari.
Ciò non significa che ogni disabilità venga compensata dall’abilità, ma
piuttosto che i fenomeni di menomazione e di disabilità rendono evidente la
necessità di un aiuto reciproco. D’altra parte, tale interdipendenza è, di
fatto, il destino dell’umanità in generale…
La menomazioni sono aspetti dell’incarnazione dell’immagine di Dio.
Abbiamo visto che, mentre la prassi della Chiesa e quella dello Stato devono
ancora migliorare nel fare proprie le conseguenze di ciò che significa vivere
con menomazioni, la teologia che è alla base della dottrina sociale della
Chiesa ha compiuto molti passi avanti, soprattutto negli ultimi decenni. Molte
delle conseguenze per la teologia della disabilità sono state messe in risalto,
e molte altre sono ancora oggetto di studio.
Stiamo abbandonando a poco a poco una teologia che nega l’individualità della
persona disabile. La disabilità, secondo tale teologia, dipendeva dal peccato
originale. In alternativa (non migliore), essa era una benedizione concessa
all’«anima vittima» affinché soffrisse per il bene di tutti. Il modello medico
della disabilità trovava così espressione teologica. Entrambe le concezioni
consentivano alla comunità di «lavarsi le mani» riguardo a una parte dei suoi
membri. Invece, ora arriviamo a comprendere che le menomazioni sono
semplicemente aspetti dell’incarnazione dell’immagine di Dio. Lungi dall’essere
«altro», esse manifestano la limitatezza di tutto il popolo di Dio: limitatezza
che è una parte fondamentale del disegno umano, di cui le menomazioni sono
semplici casi, estranei alla peccabilità umana, che è un difetto morale, non
fisico. Il corpo anche menomato è bello, tanto è vero che Cristo, nella sua
incarnazione, ha assunto questa carne menomata e l’ha resa divina.
La disabilità contiene in sé una lezione per la Chiesa nel suo insieme. È un
segno diverso da quanto si è creduto in passato. L’incarnazione dimostra che
Cristo si è fatto carico dei limiti umani, compresa la menomazione. Quando opera
le guarigioni, egli assume le menomazioni degli altri nella vita divina e
ritorna dai morti conservando le sue ferite nel suo corpo risorto, menomato,
umano. La menomazione appare dunque come una caratteristica della debolezza
umana, attraverso la quale può risplendere la potenza di Dio. Al tempo stesso
ci rivela che noi siamo fatti per la comunione con Dio e con il nostro
prossimo…
Da Famiglia Cristiana del 04.01.2020
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