Chi fu il primo a utilizzare la parola “museo” in modo moderno? Fu l’umanista Paolo Giovio, che tra il 1537 e il 1543 fece costruire, sulle sponde del lago di Como, un vero museo aperto al pubblico dove era esposta una vasta collezione di ritratti.
A quando risale il primo utilizzo consapevole della parola “museo”? L’accezione moderna del termine con cui oggi indichiamo quell’istituto senza scopo di lucro e al servizio della società che, riprendendo la definizione dell’Icom formulata nel 2007, “effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto”, ha una data di nascita precisa, il 1543: è questo l’anno in cui, a Como, termina la costruzione del Museo di Borgovico, l’edificio che l’umanista Paolo Giovio (Como, 1483 circa – Firenze, 1552) aveva destinato alla sua collezione di circa quattrocento ritratti di illustri personalità antiche e moderne: principi, imperatori, papi, letterati, condottieri, artisti, poeti.
Giovio aveva cominciato a dar vita alla collezione che sarebbe divenuta il suo Musaeum prima del 1520, quando iniziò ad acquistare ritratti di letterati, ai quali poi affiancò quelli di principi e condottieri. Si trattava anzitutto di personaggi contemporanei: laddove possibile, Giovio voleva che i ritratti fossero eseguiti dal vero, e a tal proposito non di rado prendeva contatti diretti con i personaggi o con chi li conosceva. La stessa cura voleva venisse adoperata anche per i personaggi del passato: non dunque ritratti stereotipati, ma il più possibile fedeli alle immagini che di quei personaggi erano state tramandate (per gli imperatori romani, per esempio, il riferimento era alla numismatica e alla medaglistica del tempo). Come detto, la collezione contava circa quattrocento ritratti dei personaggi più disparati: i sovrani Carlo V e Francesco I di Francia, governanti e regnanti vari come Lorenzo il Magnifico, Gian Galeazzo Sforza e Cesare Borgia, poeti come Dante, Petrarca, Boccaccio, Ludovico Ariosto e Poliziano, letterati come Pietro Aretino e Niccolò Machiavelli, filosofi come Pietro Pomponazzi, Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro, grandi umanisti come Lorenzo Valla, Demetrio Calcondila, Platina e Giovanni Pontano, artisti come Leonardo da Vinci, Raffaello, Michelangelo. Occorre premettere che, dopo la morte di Giovio, la collezione non sopravvisse a lungo intatta: fu infatti immediatamente smembrata tra i vari eredi dell’umanista. Oggi tuttavia la conosciamo in larga parte perché già nel Cinquecento ne furono realizzate alcune copie, la più famosa delle quali è la celeberrima “Serie Gioviana” degli Uffizi, commissionata da Cosimo I de’ Medici, che mandò uno dei suoi pittori più fidati, Cristofano dell’Altissimo (Firenze, 1525 – 1605) a Como per eseguire una copia fedele della collezione. Cristofano dell’Altissimo lavrò per quasi tutta la sua carriera alla copia della collezione di Paolo Giovio (fino al 1589), eseguendo ritratti di formato ridotto rispetto agli originali per ragioni logistiche: si intendeva rendere il loro trasporto a Firenze più agile. Oggi, la Serie Gioviana è esposta lungo i corridoi degli Uffizi. La raccolta originale (una frazione della quale, comprendente circa quaranta ritratti, è oggi esposta alla Pinacoteca Civica di Como) non era stilisticamente omogenea, anche se vedendo i dipinti della Serie Gioviana, tutti eseguiti dalla stessa mano, potremmo percepirla come tale: alla creazione dei dipinti di Paolo Giovio concorsero infatti molti artisti, alcuni tra i più grandi del tempo (Tiziano, Bronzino, Dosso Dossi e Bernardino Campi, tra gli altri: l’opera più famosa della raccolta è forse il Ritratto di Andrea Doria nelle vesti di Nettuno del Bronzino, oggi alla Pinacoteca di Brera), e altri mestieranti rimasti anonimi, con evidenti scarti stilistici e anche differenze d’impostazione (compaiono ritratti a mezzo busto, di profilo, a figura quasi intera e così via).
L’edificio fatto costruire dall’umanista comasco può essere considerato il primo nato appositamente per essere destinato a funzioni che definiremmo, appunto, “museali”. E Paolo Giovio è il primo intellettuale a utilizzare in senso moderno la parola “museo”. La scelta del nome dell’edificio si richiamava alla tradizione classica. Letteralmente, il “museo” è il “luogo sacro alle Muse”, le divinità greche protettrici delle arti, alle quali era dedicata un’intera sala. Giovio non era il primo che adoperava il termine: fu infatti preceduto da altri come l’umanista tedesco Cuspiniano (Johannes Cuspinian; Schweinfurt, 1473 – Vienna, 1529), che utilizzò questo termine nel 1517 per riferirsi a un luogo di studio, e qualche anno dopo il termine Mouseion alla greca sarebbe stato usato anche da Erasmo da Rotterdam, nel Convivium religiosum, per indicare uno studiolo destinato alla lettura dei codici. L’uso di Giovio del termine era però del tutto nuovo e andava di pari passo con la sua idea che, ha scritto lo studioso T. C. Price Zimmermann, costituisce “il suo contributo più originale alla civiltà europea”. Se infatti le Wunderkammern e le collezioni principesche “non erano nuove, l’idea di riempire una villa con ritratti di gente famosa su tela o su medaglioni di bronzo, chiamandola un museo, ed aprendola ad publicam hilaritatem (per il pubblico diletto) era una svolta”.
Giovio si era certo ispirato ad alcuni precedenti (la sua raccolta di personaggi illustri non era l’unica, anche se la sua insistenza sul realismo delle raffigurazioni era anch’esso un fatto inedito: Giovio era infatti uno storico e il suo interesse primario era dunque la verifica della verità), ma l’idea di creare dall’inizio una raccolta a scopo pubblico e didascalico e di dedicare a essa un apposito edificio non aveva alcun precedente. Si potrebbe rilevare, per completezza, che probabilmente l’idea di aprire la raccolta non nacque nell’immediato: scrivono infatti Pietro C. Marani e Rosanna Pavoni che “i primi musei privati come quello di Paolo Giovio a Borgovico sul lago di Como (che vanta il primato d’essere stato edificato […] accanto alla villa dell’erudito, come edificio nato appositamente per custodire i ritratti degli uomini illustri, antichi e moderni) nascono […] per piacere personale, per volontà di sistematizzare il mondo e, solo in un secondo momento, per offrire diletto e occasioni di studio ai ’gentilissimi et illustri signori… ai cittadini’ (Giovio)”. Non è comunque oggetto di discussione che molti caratteri dell’idea di Giovio contribuiscano a fare di lui uno straordinario precursore.
“Giovio”, scrive ancora Zimmermann, “concepì un archivio mondiale del ritratto, un’idea la cui novità e utilità deve avere colpito allo stesso modo i donatori poiché, anche tenendo conto della sua insistenza degna di nota, egli godeva di un indice notevolmente elevato di accondiscendenza verso le sue richieste, non certo economicamente irrilevanti”. Nella scelta del nome da assegnare all’edificio (anche se già nel 1532 aveva utilizzato il termine “musaeum” assieme al fratello, il notaio Benedetto Giovio, per indicare uno degli ambienti del palazzo di famiglia forse destinato a una delle sue collezioni) è possibile, spiega ancora lo studioso, che Giovio “avesse in mente qualcosa di analogo al museo fondato dai Tolomei ad Alessandria, un’accademia splendidamente allestita, come una grande biblioteca e una tradizione di letture e simposi ai quali i regnanti ellenistici d’Egitto presero parte personalmente; ma se è così, egli non fu esplicito in proposito”.
La museologa Adalgisa Lugli ha riassunto in modo molto efficace il paradigma programmatico dell’umanista lombardo: “Nell’accezione indicata da Giovio museo contempera insieme l’edificio, un programma iconografico, una collezione, ed è un luogo monumentale, un punto di riferimento offerto all’uso e al godimento di una larga cerchia di persone. Vi compare nelle varie intenzioni programmatiche anche il termine ‘pubblico’”. È dunque qualcosa che si avvicina molto all’idea odierna di museo. Inoltre, fatto molto interessante, per la mentalità de tempo l’aspetto relativo alla conoscenza era prevalente rispetto a quello della conservazione. Due elementi, in particolare, contribuiscono a chiarire questo aspetto: il primo è l’insistenza sul tema delle muse, che figuravano dipinte anche nella sala centrale dell’edificio (“in testa da un lato è una sala molto miracolosa con tutte le Muse dipinte a torno con suoi strumenti, prospettive, animali, fregi e figurette mirabili”, avrebbe scritto il letterato Anton Francesco Doni in visita al Musaeum di Giovio), a sottolineare una sorta di “sacralità” del luogo e a protezione del processo di conoscenza che qui si sarebbe compiuto. Il secondo è invece la presenza, accanto ai ritratti, degli Elogia, ovvero di brevi biografie che dovevano accompagnare i ritratti per esplicitare i fatti riguardanti il personaggio raffigurato nel dipinto. Il termine scelto faceva riferimento alle iscrizioni che, nei ritratti romani, accompagnavano le immagini del soggetto. Gli Elogia furono divisi per tipologia (i primi a essere pubblicati, nel 1546, furono quelli dei letterati). “Ristampati molte volte”, scrive ancora Price Zimmermann, “gli Elogia sono una miniera non solo di dati biografici, ma soprattutto di costumi del tempo, giudizi, voci, anche pettegolezzi, in un’epoca che si dedicò, e non in poca misura, alla creazione delle personalità eroiche. Si tratta di brevi composizioni che impiegano le res gestae e la tradizione orale per delineare pregi e difetti di un personaggio, anche accogliendo notizie oggi non verificabili altrove, purché servano a ritrarne l’essenza, così come i contemporanei lo percepivano”.
Anche il luogo sul quale sarebbe sorto l’edificio era ricco di suggestioni. L’edificazione partì nel 1537, in un’area dove si riteneva ci fosse un platano caro a Plinio il Giovane: probabilmente anche l’idea di provenire dalle stesse zone di Plinio (a cui il Musaeum era dedicato) contribuì a modellare i desideri di Paolo Giovio. L’umanista stesso, nella Musei Ioviani Descriptio, aveva fornito una descrizione dell’edificio (qui nella traduzione di Franco Minonzio): “La villa è di fronte alla città e sporge come una penisola sulla superficie sottostante del lago di Como che si espande tutto intorno; si protende verso nord con la sua fronte quadrata e verso l’altro lago con i suoi fianchi dritti, su una costa sabbiosa e incontaminata, e perciò estremamente salubre, costruita proprio sulle rovine della villa di Plinio. […] Giù nelle acque profonde, quando il lago, distendendo dolcemente la superficie vitrea, è calmo e trasparente, si vedono marmi squadrati, tronchi enormi di colonne, piramidi consunte che prima decoravano l’ingresso del molo falcato, davanti al porto”. Dalla sala principale della raccolta, scriveva ancora Giovio, “si vede quasi tutta la città. Si vedono anche le parti del lago rivolte a nord, con le loro splendide insenature; le coste verdeggianti, piene di ulivi e di alloro, i colli dove la vite cresce rigogliosa, i monti che danno inizio alle Alpi, ricchi di boschi e di pascoli, ma dove i carri possono transitare. Ovunque ci si volge balza agli occhi un aspetto della regione inatteso e piacevole, che appaga lo sguardo e non è mai stucchevole”.
L’edificio stesso si rifaceva al modello della villa romana descritta da Plinio il Giovane, con una grande sala centrale che, nell’antichità, era destinata agli avi, mentre nella struttura di Paolo Giovio avrebbe accolto il Musaeum. Grazie alle ricerche di studiosi come Paul Ortwint Rave, Matteo Gianoncelli, Stefano Della Torre e Sonia Maffei, è stato possibile ricostruire l’aspetto che l’architettura della casa doveva avere: a due piani, era preceduta da un portico che portava direttamente alla Sala del Museo, affacciata sul lago di Como e circondata dai locali di servizio e da altre stanze dedicate ad altre divinità. La prima stanza in cui si entrava era un grande atrium decorato con affreschi ed emblemi, dal quale si accedeva al cavaedium, il cortile centrale attorno al quale correva il portico. Da qui, come detto, si accedeva alla Sala del Museo, la più grande della casa. Da qui si entrava poi nella Sala di Minerva, dedicata ai comaschi illustri, che era adiacente alla sala di Mercurio, dove si trovava la biblioteca del palazzo. Si entrava poi nella sala delle Sirene, destinata agli svaghi, e da qui si arrivava poi all’armeria. Al secondo piano si trovava invece un Salone d’Onore, affiancato dai locali privati di Paolo Giovio.
Per quanto sia ormai radicata la convinzione della novità del Musaeum di Giovio, molti aspetti relativi alla sua ideazione rimangono ancora da chiarire. Per esempio, non sappiamo come fossero disposti i ritratti nel Museo, anche se, per Franco Minonzio, chiederselo è “un falso problema” perché “potrebbe darsi che non si sia mai data l’eventualità che tutti i ritratti fossero in condizione di essere ospitati contemporaneamente”, data la vastità della raccolta. “In ogni caso è attestato che, a tale scopo, si prestarono anche le due case di famiglia fatte restaurare da Paolo contemporaneamente alla edificazione del Museo”. Un altro problema è quello anticipato da Marani e Pavoni, vale a dire le tempistiche della realizzazione del Musaeum: la collezione fu infatti avviata prima del 1520, mentre la costruzione dell’edificio destinato a ospitarla partì ben diciassette anni più tardi, e ancora successiva è la pubblicazione degli Elogia. Sebbene dunque il museo gioviano sia da considerare l’intersezione di tre elementi ben distinti (la collezione, l’edificio, le biografie), e benché venga oggi spesso percepito come un tutt’uno estremamente regolare, occorsero molti anni affinché il Musaeum assumesse i caratteri che lo hanno reso un’idea tanto originale. Il problema è complesso, anche perché a sua volta l’elaborazione della villa precede di oltre quindici anni l’inizio della raccolta. “Se è così”, scrive Minonzio, “è legittimo chiedersi, ex novo, entro quale nucleo di esigenze etiche e di ragioni intellettuali prese forma l’edificazione del Museo, se il metodo storiografico di Giovio abbia qualche parte nell’avvio della raccolta dei ritratti degli uomini illustri, e dunque se sia stato occasionale o meno l’incrocio tra il progressivo costituirsi della collezione e una ‘volontà di villa’ così precocemente”. Le risposte potrebbero essere radicate nella lunga e a sua volta complessa vicenda intellettuale di Giovio, suggerisce Minonzio.
Ad ogni modo, l’edificio non esiste più da tempo. Cadde infatti in rovina non molto tempo dopo la morte di Paolo Giovio, e nel 1613 venne definitivamente fatto abbattare dal nuovo proprietario dell’area, il cardinale Marco Gallio, che vi avrebbe fatto poi edificare il palazzo di famiglia, la Villa Gallia, ulteriormente rimaneggiata nell’Ottocento, quando assunse l’attuale aspetto neoclassico. Oggi, con il Musaeum che non esiste più e con la raccolta originale smembrata (il nucleo più consistente, come detto, è quello della Pinacoteca Civica di Como) possiamo considerare la Serie Gioviana degli Uffizi come l’erede più diretto del progetto dell’umanista comasco. Inizialmente accolta a Palazzo Vecchio, fu poi spostata a Palazzo Pitti nel 1587, e poi successivamente trasferita agli Uffizi, che peraltro, con la sua straordinaria collezione di autoritratti, possiede un’altra raccolta costruita con spirito non dissimile rispetto a quello che animò Paolo Giovio. E che oggi sopravvive dunque lontano dal lago di Como, nei corridoi del museo più visitato d’Italia.
Da Finestra sull’arte
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