Questa tremenda immagine scattata nel 1944 ci fa tornare all’attualità dell’Ucraina con i carri armati di Putin. Dietro a questa immagine esoste una tragedia sconvolta dal bombadamento aereo di Rimini che vogliamo raccontarvi per testimoniare cosa significa la distruzione di una città. Buona lettura.
Un drammatico dato, ormai noto a tutti, è quello relativo ai danni bellici sofferti da Rimini durante la Seconda Guerra Mondiale: nel periodo novembre 1943 – settembre 1944, la nostra città fu colpita da 396 bombardamenti aerei, navali e terrestri che distrussero oltre l’82% delle sue abitazioni, dato più alto tra tutte le città italiane con più di 50.000 abitanti; le vittime ufficiali tra civili e militari furono 6.668 e oltre 6.000 i feriti, mutilati dispersi.
Questo altissimo tributo pagato da Rimini venne ufficialmente riconosciuto il 16 gennaio 1961 quando, per decreto del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, la città venne insignita della Medaglia d’Oro al Valor Civile con la seguente motivazione: “Fedele alle sue più nobili tradizioni subiva stoicamente le distruzioni più gravi della guerra e prendeva parte validissima alla lotta di liberazione, attestando, col 0sacrificio di numerosi suoi figli, la sua purissima fede in una Italia migliore, libera e democratica”.
Per fortuna nostra e del patrimonio storico e culturale mondiale, comunque, dal tremendo impatto del passaggio del fronte (particolarmente aspro a causa della valenza logistica di Rimini – noto sin dall’epoca romana – e della vicinanza con la Linea Gotica tedesca) vennero incredibilmente risparmiate le due “perle” monumentali riminesi, ovvero l’Arco d’Augusto e il Ponte di Tiberio… che si salvarono dalla completa distruzione per caso quasi fortuito. Lo storico Amedeo Montemaggi, maggiore esperto mondiale per quello che riguarda la Battaglia di Rimini e lo sfondamento alleato della Linea Gotica, ha approfondito le vicissitudini dei due monumenti confrontandosi direttamente con i protagonisti di entrambi gli schieramenti.
Si deve premettere che i paracadutisti tedeschi avevano ricevuto l’ordine di abbandonare la città senza combattere, previa distruzione dei numerosi ponti sull’Ausa, sul Marecchia e sul deviatore del Marecchia (7 ponti stradali – fra cui il bimillenario Ponte di Tiberio – e 4 ponti ferroviari), nonché dei palazzi d’angolo delle vie e piazze principali, affinché con le loro macerie impedissero il passaggio ai veicoli e ai carri armati alleati.
I ponti erano già stati minati da mesi; gli ultimi quattro ponti vennero consegnati al I. Battaglione Pionieri paracadutisti: due sarebbero stati fatti saltare subito, altri due (compreso il Ponte di Tiberio) all’ultimo momento e solo dopo la completa ritirata germanica.
Il ponte di ferro della ferrovia sul porto-canale venne distrutto dal maresciallo Georg Schmitz, chef del 1. Plotone della 4. Compagnia del tenente Holm; la distruzione dell’Arco d’Augusto e del Ponte di Tiberio venne invece affidata agli esplosivi del maresciallo Willi Trageser, della 2. Compagnia.
Trageser si rifiutò di far saltare l’Arco d’Augusto. Il compito gli era stato affidato dal tenente Renberg e doveva essere eseguito materialmente da un giovane graduato originario dei Sudeti, di cui Trageser – nel colloquio riportato da Montemaggi – non ricordava il nome: «Io personalmente diedi l’ordine di non far saltare l’Arco, assumendone la piena responsabilità… Mi pareva assurdo distruggere un monumento storico del genere per non ottenere alcun risultato, dato che l’arco era isolato in mezzo a una piazza e quindi il traffico avrebbe potuto continuare benissimo, sia a destra che a sinistra del monumento stesso…» .
Da RiminiSparita
L’Arco sopravvisse in un primo momento, quindi, grazie all’insubordinazione di un ufficiale tedesco sensibile al patrimonio storico.
È interessante però sapere che l’Arco incontrò maggiori pericoli con l’arrivo degli inglesi. Montemaggi, infatti, ricorda le lotte che l’Assessore ai Lavori Pubblici Mario Macina dovette sostenere con i tecnici britannici per evitare che le pietre monumentali venissero utilizzate per consolidare il manto delle numerose strade distrutte dai cingoli e dalle ruote di migliaia di veicoli.
Una volta l’Arco fu salvato miracolosamente dal riminese Sergio Santarini, preside di Scuola Media, il quale passando per caso davanti al monumento vide una squadra di neri sudafricani e mulatti delle isole Mauritius, addetti al Genio Zappatori, i quali avevano già imbragato con catene i il monumento per abbatterlo. Inorridito corse negli uffici del Town Mayor (il Governatore inglese) a riferire quello che aveva visto. Gli inglesi corsero ai ripari e chiarirono l’equivoco.
Per gli sterramenti stradali non doveva essere abbattuto l’Arco d’Augusto ma l’ancor più antico arco etrusco-romano della Porta Montanara, che intralciava il traffico. E così fu fatto e la metà dello storico monumento (l’altra metà venne esposta per decenni nel cortile del Tempio Malatestiano prima di venir riposizionata in via Garibaldi nel 2004) andò a rinforzare qualche massicciata stradale tenendo forse compagnia allo scomparso “pietrone” da cui, secondo la tradizione, Giulio Cesare aveva rivolto alle truppe il famoso discorso del 49 a.C. contro il Senato di Roma e che diede inizio alla guerra civile contro Pompeo.
L’Arco fu salvato un’ultima volta dal tenente Woods, un geniere sudafricano. Egli vide un capitano dare l’ordine di abbattere il monumento: corse subito dai superiori a scongiurare il delitto definitivamente.
Lascia un commento