La campionessa è tra i protagonisti del documentario «Rising Phoenix» sulla storia dei Giochi paraolimpici. Da mercoledì 26 agosto disponibile su Netflix.
Se inizi a chiederti perché è successo a te non vai da nessuna parte. Non c’è un perché, le cose brutte capitano». Con il piglio e il sorriso che l’hanno resa un mito, Bebe Vio semplifica così una realtà tra le più complicate anche solo da accettare. L’atleta è uno dei volti di «Rising Phoenix: la storia delle Paraolimpiadi», nuovo, potente documentario disponibile da mercoledì 26 agosto su Netflix, che racconta la storia dei Giochi Paraolimpici attraverso quelle di chi ci gareggia ora. «Siamo tutte persone diverse, con percorsi diversi e sfighe diverse, ma ognuno è determinato a perseguire il suo sogno», spiega la schermitrice. Un sogno reso possibile da un’intuizione: quella del dottor Ludwig Guttmann, neurochirurgo che dopo la Seconda Guerra mondiale intuì il potere dello sport per chi aveva una disabilità. «Gestiva un ospedale dove, in sostanza, gli venivano spediti i pazienti con amputazioni o altro in attesa che morissero. Lui invece li ha curati e, con lo sport, ha dato loro la forza di andare avanti… a volte ci penso: se siamo qui lo dobbiamo a questo pazzo che ha avuto un’idea geniale».
I primi Giochi paraolimpici sono stati «a Roma nel 1960: dobbiamo andarne orgogliosi. Da allora in tanti hanno capito che non dovevano più vergognarsi: oggi ci sono ragazzi che con le loro protesi si sentono Ironman». Lei una supereroina non si è mai sentita: «Ho solo avuto la fortuna di incontrare le persone giuste sulla mia strada. Per me un eroe è Alex Zanardi: ti insegna che tutto è possibile. Ha spaccato il mondo e lo spaccherà ancora». Ma dell’incidente non vuole parlare. «Lui e Pistorius sono stati i miei miti: se faccio sport è grazie a loro, gli unici sportivi con disabilità noti. Pistorius quando avevo 11 anni mi ha detto per primo che non voleva dire nulla se non avevo gambe e braccia, dovevo solo allenarmi. È stato come un fratello, Zanardi un papà: sono due pietre miliari dello sport paraolimpico».
Ora lo è anche lei, che con una parlantina ugualmente sciolta anche in inglese («faccio l’università americana e vivo con sei ragazze straniere»), spiega come «le sfighe possano risolversi in un modo bellissimo. Le difficoltà ci sono, da quelle economiche all’ignoranza: io stessa prima non conoscevo la disabilità; per me la carrozzina era per i vecchietti». Nel film un altro atleta, Jean-Baptiste Alaize, dice che quando ha partecipato per la prima volta alle Paraolimpiadi non ha conosciuto la vittoria ma l’umanità.
«È così. In Italia abbiamo disabilità piuttosto semplici. Nel villaggio paraolimpico vedi cose che non si possono immaginare. Gente che arriva da guerre, persone nate da incesti. Ho visto la persona più bassa del mondo vicino a quella più alta. Un ragazzo affetto da nanismo che, anche se era finito l’allenamento, saltava in continuazione per vedere cosa c’era da mangiare in una mensa in cui trovi anche la squadra di calcio non vedenti: si muovono in fila indiana, uno con la mano sulla spalla dell’altro. Scopri, è vero, l’umanità. Ti sembra di vedere un film: non volevo la pasta ma i popcorn. E confesso di essermi anche sentita in colpa, quando c’era chi a tutti i costi voleva prendere da solo il suo piatto di minestra, facendola cadere dappertutto, e io magari mi ero appena lamentata perché mi stava stretta la gamba».
La speranza, ora, è rivivere presto quelle emozioni. «Il 26 ci sarebbe stata la mia prima gara olimpica… Se ne parla tra un anno, spero. Intanto dal film è nata una serie tv sulla preparazione degli atleti nei prossimi mesi. Ho voluto con me tutti i ragazzi della mia associazione: io sono la mia squadra».
Da Corriere della Sera 21 agosto 2020
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