Le restrizioni anti-coronavirus aggravano le condizioni di vita di 4 milioni di disabili e dei loro cari. Senza scuole, con i centri diurni (quasi tutti) chiusi, il Governo ha previsto unità speciali, ma finora è una promessa. “Nessuna Regione li ha istituiti”.
Sole, abbandonate, spesso senza neanche una parola di
conforto “che in momenti come questi vorrebbe dire tanto”, sospira Roberto Speziale.
Sono le famiglie delle persone con disabilità, oggi alle prese con una prova
ulteriore e inaspettata: l’isolamento forzato, imposto dal decreto del Governo
per fermare l’avanzata del coronavirus. Un obbligo che, da un giorno all’altro,
ha reso ancora più complicata, la vita, già complessa, di milioni di persone,
tra genitori e familiari. Senza il supporto di scuole, strutture e centri
specializzati e, soprattutto, senza la possibilità di usufruire di servizi
domiciliari alternativi che li aiutino a gestire i propri figli, i propri
parenti.
In Italia i diversamente abili (con disabilità motorie, sensoriali e
intellettive) sono circa tre milioni – il 70 per cento con disabilità
intellettive e disturbi del neuro-sviluppo – “ma se si considerano anche le persone
non autosufficienti, come ad esempio i malati di Alzheimer, si arriva a oltre
quattro milioni ”, fa notare Speziale, presidente nazionale dell’Anffas,
l’Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità e/o relazionale,
che sottolinea come “l’isolamento stia diventando un’aggravante della fragilità
che già caratterizza la vita di milioni di famiglie”.
Niente scuola, niente didattica. Nel caso dei disabili, l’avvio della
quarantena non è stato accompagnato da soluzioni alternative per rendere nel
concreto meno traumatico lo stravolgimento delle loro abitudini quotidiane. Con
la chiusura delle scuole, per esempio, ai ragazzi normodotati è stata offerta
la possibilità di seguire le lezioni a distanza, via computer. Agli alunni
disabili, invece – in Italia circa 240.000 – il Governo con il decreto del 9
marzo, ispirato al principio “Io resto a casa”, ha garantito l’assistenza nel
periodo dell’isolamento in cui il servizio scolastico è sospeso. “Gli enti
locali possono fornire, tenuto conto del personale disponibile, l’assistenza
agli alunni con disabilità mediante erogazione di prestazioni individuali
domiciliari”, si legge nella pagina web dedicata sul sito del Ministero della
Salute.
Nella realtà però, le cose stanno diversamente. “In tutta Italia sarà accaduto
in dieci posti al massimo – fa notare Speziale – è molto complicato da
realizzare”. In giorni in cui l’imperativo principale è “restate a casa”,
mantenere le distanze l’unica strategia per evitare il contagio del nuovo
virus, sia le famiglie degli alunni disabili – in Italia sono circa 240.000 che
avrebbero dovuto accogliere nella propria abitazione gli operatori, sia questi
ultimi, che avrebbero dovuto andarci, rompendo l’isolamento e assumendosene
rischi e conseguenze, nella stragrande maggioranza dei casi hanno rifiutato di
usufruire di tale servizio. Il risultato è che “gli alunni che frequentano le
scuole oggi sono a casa e non hanno la possibilità di continuare il loro
percorso scolastico e, elemento parimenti importante, di relazione”, sottolinea
il presidente dell’Anffas.
Centri diurni chiusi. Anzi, no. E poi c’è la questione dei centri diurni, le
strutture che durante il giorno accolgono persone diversamente abili, di età
compresa tra i 18 e i 65 anni, non del tutto autonome. In seguito
all’esplosione dell’emergenza coronavirus in alcune regioni – Emilia-Romagna,
Veneto e Puglia, per esempio – sono stati chiusi, in altre – Toscana e Lazio –
sono ancora aperti. “In altre ancora, come la Lombardia, ci sono zone in cui
cui sono stati chiusi e zone in cui li si trova ancora aperti – fa notare il
vicepresidente nazionale di Anffas, Emilio Rota – una situazione che, se
possibile, rende ancora più drammatica la crisi che sta vivendo la regione
maggiormente colpita dal Covid-19”. Rappresentazione plastica degli effetti,
causati dalla gestione frammentata, su base regionale, del sistema sanitario.
I centri diurni vanno chiusi. “Proseguire le attività in queste strutture
espone i disabili che li frequentano, che non sono in grado di recepire subito
e dunque di rispettare le regole dettate dal Governo per evitare il possibile
contagio, e gli operatori che li seguono a rischi enormi”, scandisce Speziale.
Per questo l’Anffas ha chiesto, con una missiva inviata all’Ufficio per la
promozione dei diritti delle persone con disabilità istituito presso la
Presidenza del Consiglio, di provvedere a chiudere i centri diurni e
riabilitativi in tutta Italia.
Unità speciali. Ma dove? Nel decreto del Governo del 9 marzo la questione viene
considerata. Regioni e Province autonome “hanno facoltà di istituire – si legge
nella pagina web del Ministero della Salute – unità speciali atte a garantire
l’erogazione di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie a domicilio in favore
di persone con disabilità che presentino condizione di fragilità o comorbilità
tali da renderle soggette a rischio nella frequentazione dei centri diurni per
persone con disabilità”. Anche in questo caso, però, l’indicazione è rimasta
una buona intenzione. “Le unità speciali non ci sono, nessuna Regione, almeno
fino a questo momento, le ha istituite” – dice Speziale – le famiglie si
ritrovano da sole a gestire questa situazione straordinaria che mette a dura
prova una condizione già normalmente complessa. Per questo abbiamo chiesto
all’Ufficio istituito presso la Presidenza del Consiglio di supportarle quanto
più possibile e con misure concrete”.
I centri residenziali, “una bomba a orologeria”. Alla Protezione civile,
invece, l’Associazione ha segnalato un’altra situazione, che Speziale definisce
“una bomba a orologeria”: i centri residenziali nei quali nel nostro Paese
vivono circa 400.000 diversamente abili. Cosa succederebbe in un luogo chiuso
come questi, dove pazienti e operatori vivono a stretto contatto, se il
Covid-19 contagiasse anche una sola persona? “Sarebbe una tragedia e purtroppo
non sono eventualità lontane – considera Speziale – in Cina, per esempio, è
accaduto”. Di qui la richiesta inoltrata alla Protezione Civile di mettere in
atto piani di emergenza con personale di supporto “per intervenire subito
laddove si verificasse una situazione del genere”.
I volontari ci sono, mancano le mascherine. Al momento, “in attesa che si muova
il sistema centrale”, a intervenire sul campo per sostenere le famiglie con
disabilità – anche al telefono offrendo un supporto psicologico, come sta
facendo l’Anffas – sono le organizzazioni, le associazioni di volontariato, il
terzo settore, ma pure in questo caso c’è un ostacolo da superare: la carenza
di dispositivi di protezione. “Mancano le mascherine ed è ovvio che questo
rappresenti un forte deterrente all’attività di tanti volontari disponibili e
motivati”.
In definitiva, conclude il presidente dell’Anffas, dal Governo “sono arrivate
indicazioni e previsioni” per stare al fianco di genitori e familiari che si
occupano di un figlio o un congiunto disabile, anche corrette, “ma più teoriche
che pratiche e lo diciamo senza polemica. Siamo consapevoli che non è il
momento di muovere obiezioni, ma le criticità vanno segnalate”. Soprattutto,
per Speziale, va sottolineata la necessità di “adottare misure concrete e
assumere decisioni in maniera univoca in tutto il Paese, evitando quanto più
possibile il rischio di alimentare confusione che, in un momento così delicato
come quello che stiamo vivendo, disorienterebbe ancora di più famiglie già
messe costantemente alla prova dalla disabilità”.
Al di là delle belle parole. “Vanno assunti provvedimenti in grado di dare
risposte reali e certe alle esigenze di queste persone, al di là delle belle
parole”, dice senza mezzi termini Nina Daita, storica responsabile delle
politiche per la disabilità della Cgil nazionale.
Per i genitori che durante l’isolamento, dentro casa, hanno necessità di
prendersi cura dei figli diversamente abili costantemente, non basta un congedo
parentale di 15 giorni come quello previsto dal Governo, “serve un congedo
straordinario”. Così come bisognerebbe organizzarsi, in questo periodo anche
per gestire meglio l’eventualità dei rischi connessi a un eventuale contagio da
Covid-19, per assicurare ai disabili un accesso adeguato ai pronto soccorso.
“Sarebbe opportuno prevedere per queste persone, che spesso necessitano di un
accompagnatore, un’accoglienza dedicata, con personale specializzato al
trattamento di disabilità fisiche, psichiche e intellettive”, aggiunge Daita,
che invita a non dimenticare i disabili che vivono da soli. E spiega: “I
sindaci dovrebbero fare uno sforzo ulteriore e, magari attraverso il terzo
settore, fare in modo da assicurare, pur con tutte le cautele e nel rispetto delle
regole necessarie a evitare la diffusione del contagio, vicinanza e assistenza
ai diversamente abili che non hanno familiari per alleviare almeno in parte la
loro solitudine, in questi giorni acuita dall’isolamento forzato, facendogli
sentire la vicinanza della comunità e delle istituzioni”.
Ilde e Silvana, tra solitudine e impegno. Sensazione, la vicinanza di comunità
e istituzioni, poco avvertita da genitori e familiari di disabili. Lo fanno
capire bene pur senza dirlo espressamente, Ilde Narducci Platiroti e Silvana
Giovannini, 77 e 59 anni. I loro figli, 56 e 32 anni, hanno entrambi una
“disabilità complessa per asfissia da parto”. La prima presiede l’Anffas di
Ostia, la seconda l’associazione “Ylenia e gli Amici Speciali”, vivono in Lazio
e stanno affrontando l’emergenza coronavirus ciascuna secondo le proprie
possibilità. Ilde, che abita da sola con suo figlio, in nulla autosufficiente e
da anni costretto alla sedia a rotelle, continua a portarlo al centro diurno di
Ostia, dove trascorre buona parte della giornata insieme ad altri – poco meno
di trenta – adulti diversamente abili come lui.
Silvana, invece, suo figlio ha deciso di non portarlo alla struttura che
frequenta di solito. “Ho scelto di tenerlo in casa, non è il momento di fare
vita di comunità. Fargli frequentare il centro è troppo rischioso. Le persone
disabili, specie con disabilità intellettive e psichiche, non sono in grado di
poter adottare le norme di prevenzione igienico – sanitaria prescritte per
evitare il rischio di contagio”, dice risoluta. Per seguire suo figlio ha preso
un periodo di aspettativa fino al 3 aprile. “Ho potuto farlo, sono un
lavoratrice dipendente e quindi ho tutte le le tutele. Ma chi non le ha e ha un
familiare disabile cui badare, come farà in questi giorni in cui, per
l’emergenza coronavirus, le scuole sono chiuse e ai centri diurni è meglio non
mandarlo? Penso, ad esempio, alle persone con autismo. L’isolamento aumenta il
rischio di crisi, che possono essere anche molto violente”.
Per sollecitare un intervento a supporto delle famiglie con disabilità, a nome
dell’associazione che presiede, Silvana, stigmatizzando la mancata chiusura
delle strutture diurne in Lazio, ha chiesto “di prevedere nei casi necessari un
rafforzamento dell’assistenza domiciliare, mettendo in atto tutte le tutele del
caso per gli utenti”. Che significa tenere nel giusto conto anche la situazione
degli operatori domiciliari “i quali – puntualizza Silvana – operano senza
tutele e sottopagati”. In molti casi oggi le famiglie che si rivolgono agli
operatori per supportarli nell’assistenza di un figlio o di un familiare
disabile gli forniscono anche le mascherine. Li fanno entrare nelle loro case,
sfidano il rischio contagio. Anche Ilde lo fa, portando al centro diurno suo
figlio dal lunedì al venerdì. Ne è consapevole, ma non ha alternative. Né ormai
energie fisiche sufficienti ad accudire l’uomo che chiama “il mio eterno
bambino” e se capita, come è successo in estate, che lui cada dalla carrozzina,
lei, che ha anche subito diversi interventi alla colonna vertebrale, non ha le
forze per tirarlo su. “Siamo stati sul pavimento – ricorda Ilde – lui
acciambellato in posizione fetale, io al suo fianco, per ore, fino a quando una
delle altre mie due figlia è riuscita a raggiungerci e a sollevarci da terra”.
Ma le figlie vivono in altre case, con le loro famiglie, oggi sono anche loro
in isolamento. Se chiudesse il centro diurno di Ostia? “Onestamente non so come
farei – sospira Ilde – non vedo altre strade. Ho già una persona che mi aiuta
ad assistere mio figlio di notte, e spendo tanto. No, non so proprio come
potrei fare”. Silvana in questo principio di isolamento insieme a suo figlio ha
preparato pizze e dolci, “ma penso che i prossimi giorni saranno durissimi”,
confida. Crescerà la sensazione di doversela vedere da soli. “Per noi famiglie
con disabilità è una storia antica – conclude Ilde – chissà che l’emergenza
coronavirus possa gettare un po’ di luce su una realtà, la vita nostra e quella
dei nostri figli, in genere invisibile eppure così reale, una condizione che
non si può fingere di non conoscere e che invece, come si è visto anche in
questa occasione, si consuma in una pressoché totale solitudine”.
di Luciana Matarese da L’Huffington Post.it del 16.03.2020
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