«In base al modello sociale della disabilità – scrive Daniele Regolo -, evoluzione di un passaggio che ha poi portato a un modello ancora più completo, come quello bio-psico-sociale, la parola “handicap” scompare, lasciando spazio a una relazione tra lo stato oggettivo del soggetto e l’ambiente circostante, che può adattarsi o meno al soggetto interessato dal deficit. L’handicap, inteso come “svantaggio”, dipende quindi dalla società e dal mancato adattamento di questa alla specificità degli individui. Proviamo a spiegare perché».
Ho ben nitido in mente un giorno d’estate di tanti anni fa, durante uno dei
miei primi corsi di vela. Era una giornata bella e ventosa, noi allievi eravamo
impazienti di navigare e l’istruttore ci chiamò alla lavagna per un ripasso
prima di andare in acqua. Ma anziché pochi minuti, quel ripasso divenne una
lezione di teoria che durò l’intero pomeriggio, fino a quando uscimmo esausti
dall’aula.
Eravamo frustrati mentre disarmavamo quelle vele che, ormai, neanche battevano
più: il sole stava calando e il vento era finito. Il nostro istruttore era
stato chiaro: non potevamo continuare ad affrontare le onde se continuavamo a
ripetere gli stessi errori. Dovevamo capire e interiorizzare alcuni
insegnamenti, perché la teoria non fosse qualcosa di noioso e obbligatorio, ma
diventasse parte integrante della pratica. In alto mare, infatti, non basta
affidarsi all’istinto, occorre ricordare le lezioni alla lavagna, perché in
certi casi bisogna eseguire manovre del tutto controintuitive. Quel pomeriggio
servì a farci capire questo.
Anche quando si parla di disabilità si deve parlare di teoria. Conoscere le
ultime visioni sulla disabilità, elaborate attraverso un lungo processo, spesso
duro e sofferto, è indispensabile per capire meglio il mondo in cui viviamo e
il modo in cui le nostre azioni possono essere più efficaci.
Non è questo il luogo per dilungarsi sulle diverse concezioni che la società ha
avuto della disabilità, e, aggiungo, pur essendo un “addetto ai lavori” e
(anche) una persona con disabilità, non sarebbe compito mio. Anzi, dovrò
operare delle necessarie riduzioni con l’obiettivo di rendere questi concetti
quanto più comprensibili a tutti. È questo il luogo, e anche il momento,
invece, di mettere in evidenza alcuni aspetti che possono tornarci molto utili,
ad esempio parlando del modello sociale della disabilità.
Nel corso del tempo, la visione della disabilità si è progressivamente spostata
dall’individuo in sé – individuo con una menomazione – alla società di cui egli
fa parte. Più o meno fino agli Anni Ottanta prevaleva una visione medica della
disabilità: MENOMAZIONE > DISABILITÀ > HANDICAP ossia Deficit individuale
> condizione di svantaggio individuale > condizione di svantaggio
sociale.
Come si vede, si tratta di processi consequenziali e unidirezionali (per
agganciarci alle teorie, siamo nel filone del modello medico della disabilità).
Con l’affermarsi, invece, del modello sociale, nato verso la metà degli Anni
Settanta nel mondo anglosassone e poi diffusosi in tutto il mondo, il paradigma
si è evoluto così: MENOMAZIONE < > DISABILITÀ ossia Deficit individuale
< > possibile condizione di disabilità (causata dalla società).
Appare chiaro che nel modello medico c’è un rapporto esclusivamente
consequenziale tra il deficit (fisico, sensoriale, mentale e così via) della
persona e lo stato di svantaggio, in primis individuale e di conseguenza
sociale. In parole brutali: se la persona non si può “curare”, la società in
cui vive non avrà spazio per lei. Nel modello sociale, invece, la linea
deterministica diventa un rapporto di relazione in cui la parola “handicap”
scompare, lasciando spazio appunto a una relazione tra lo stato oggettivo del
soggetto e l’ambiente circostante, che può adattarsi o meno al soggetto
interessato dal deficit. L’handicap, inteso come svantaggio, dipende quindi
dalla società e dal mancato adattamento di questa alla specificità degli
individui. Proviamo a spiegarlo meglio.
Prenderò come esempio la mia sordità pre-linguale – deficit di tipo sensoriale
– e il fatto che il mio audiogramma – esame in cui si misurano la quantità e la
qualità dell’udito – segnala una grave perdita uditiva. Ciò premesso, vediamo
come una persona come me possa o meno interagire in due diversi scenari:
a) addetto al front office con contatto con il pubblico;
b) partecipante ad un convegno.
Considerato che per me la lettura labiale è indispensabile, si potrebbe
ipotizzare che il primo contesto fosse il più idoneo a questa condizione;
mentre il secondo – in mezzo a molti partecipanti e ai relatori che parlano
lontano – il più sfavorevole. E tuttavia, se focalizziamo il fatto che, nel
primo caso, un lavoro a contatto con il pubblico implica anche l’essere
separati da un vetro, che riflette la luce e che non consente quindi di
osservare bene il labiale, mentre un ronzio di fondo distrae e l’orecchio non è
in grado di discriminare tra voci e rumori, ecco che questo contesto appare
estremamente sfavorevole per chi si trova in una condizione come la mia.
Invece, la partecipazione a un convegno dove pur non essendoci posto a sedere
in prima fila, vi sia nella sala uno schermo con sottotitolazione in diretta e
interpreti LIS (Lingua dei Segni Italiana), ecco che in questo secondo caso lo
svantaggio è azzerato, in quanto la persona è perfettamente integrata e
partecipe del contesto in cui si trova.
Questo è il punto centrale: se è vero che una persona con disabilità porta con
sé, nella strada della vita, un deficit che può migliorare o peggiorare (ad
esempio, con l’impianto cocleare la mia condizione è migliorata, anche se la
sordità è lì e non si muove), l’ambiente circostante gioca un ruolo cardine. Se
adeguatamente accessibile, quest’ultimo consente infatti alla persona con
disabilità di essere parte attiva del contesto di turno: dalla famiglia al
lavoro, dallo sport a una cena tra vecchi amici.
Il modello sociale della disabilità conosce, nelle sue versioni più
integraliste, anche delle asperità dogmatiche che arrivano addirittura ad
attribuire alla società tutte le responsabilità di una mancata integrazione. In
questo caso viene deliberatamente ignorata la singola e oggettiva condizione
della persona, al punto che le limitazioni incontrate chi è portatore di un
deficit diventerebbero delle vere e proprie “discriminazioni
istituzionalizzate”.
Formalmente ciò potrebbe apparire comprensibile, ma poi la vita pratica insegna
che esistono molte sfumature che non appartengono né al bianco né al nero.
Questo però lo lasciamo ai sociologi, ai docenti, agli studiosi in generale,
che contribuiscono, in ogni caso, a generare consapevolezza sul tema. Quello
che mi preme sottolineare è che il modello sociale ci spinge a ragionare in
maniera contro-intuitiva, spostando l’attenzione dalla menomazione in sé, a
tutto ciò che la circonda. Del modello sociale, inoltre, dev’essere preso il
meglio, come per tutte le cose (non dimentichiamo che esso ha più o meno
direttamente influenzato la stesura della Convenzione ONU sui Diritti delle
Persone con Disabilità), ed è fondamentale per capire l’importanza del rapporto
dialettico che si instaura tra la persona con disabilità e il suo ambiente
(quale che esso sia). In altre parole, si ha l’evoluzione dello stesso modello
verso uno ancora più completo, quello bio-psico-sociale, che intendo
approfondire in una prossima riflessione.
Di Daniele Regolo da Superando.it del 17.04.2020
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