Bombyx mori, bombice del gelso chiamato anche baco da seta. Ben tre nomi per definire un insetto che quando esce dall’uovo è lungo un millimetro e pesa meno di mezzo milligrammo. Questo ha come obiettivo di vita cibarsi di foglie di gelso, solo di quelle, che inghiotte per circa 30 giorni.
Non c’è da stupirsi se alla fine di questa frenesia gastronomica il suo peso è cresciuto di diecimila volte e lui misura circa 9 centimetri. Durante questo periodo ogni tanto gli vien sonno e mentre sogna si disidrata un po’ e cambia la pelle; le “dormite” sono 4, le prime due durano circa 20 ore, la terza 27 e la quarta circa 48. Questa è la dormita “grossa”, da cui deriva il modo di dire “dormire della grossa” per indicare chi è profondamente addormentato. A crescita finita il baco “cerca il bosco”, cioè uno stelo, un ramo, su cui sistemarsi per trasformarsi in farfalla; negli allevamenti comaschi si forniva loro rami secchi di ravizzone o di brugo. Quando ha trovato un “bosco” di suo gradimento vi si appende e da una filiera posta sotto la bocca emette un filamento sottile che si rapprende a contatto con l’aria. Il filo è composto da due sottili bave di fibroina tenute insieme da una sostanza collosa, la sericina. Il lavoro dura due o tre giorni e produce un filo ininterrotto di circa 1200 metri, che forma un bozzolo dentro cui il nostro bruco si racchiude progressivamente sigillandosi. Il baco lì dentro si assopisce e in un paio di settimane si trasforma in crisalide e poi in una farfalla che perfora il bozzolo e se ne esce: è biancastra, grossa circa 5 centimetri, priva di bocca quindi impossibilitata a nutrirsi, e l’unica cosa che deve fare nella sua breve vita è riprodursi. In natura ciò avveniva in volo ma secoli di cattività l’hanno resa quasi incapace di volare e la riproduzione avviene ormai in modo quasi forzato. Quando in Italia si praticava l’allevamento dei bachi, le femmine cui veniva permesso di sfarfallare venivano poi deposte su una tela dove in pochi giorni deponevano circa 500 uova gialle, che in pochi giorni virano al grigio scuro, legate da una mucillagine appiccicosa; esse erano conservate in camere d’incubazione protette, fresche, buie e arieggiate, al sicuro da topi e tarme, da novembre all’inizio della primavera quando avveniva la schiusa. I bachi erano deposti su lettiere a castello e forniti di foglie di gelso in quantità e ciò dava inizio a un nuovo ciclo.
In realtà pochissimi bruchi riescono a sfarfallare perché la seta è il filamento che compone il bozzolo e l’uscita della farfalla rovina irreparabilmente il filamento serico; quindi la maggior parte delle crisalidi viene uccisa in una stufa a secco a 70°C e il filo è poi dipanato con l’operazione detta filatura o trattura, operazione complessa e faticosa, che ai tempi d’oro della seta comasca (ma italiana in genere) veniva svolta nelle filande per lo più da donne e ragazze; si lavorava rapidamente con le mani immerse nell’acqua caldissima per ammorbidire i bachi, la successiva spazzolatura serviva a trovare il capofilo di ogni bozzolo dopodiché le filatrici compivano la trattura, cioè la riunione di più bave in un unico filo di titolo prefissato, dove per “titolo” si intende il peso di 450 metri di filo espresso in denari legali (1 den = 0,05 gr); il filo doveva poi asciugare senza seccarsi ed essere esente da impurità. Tutte queste attività in origine erano svolte a mano ma nel corso del XIX secolo furono introdotti macchinari in grado di svolgere il lavoro più rapidamente e alleviando la fatica delle operaie; oggi gran parte delle operazioni di trattura sono automatizzate.
Seguono l’incannatura, cioè l’avvolgimento su rocchetti che rende le lavorazioni successive più facili, lo stracannaggio, una pulitura dalle impurità eventualmente presenti, la binatura, cioè l’accoppiamento di più fili per formare un unico filato, la torcitura, perchè l’applicazione della torsione dà maggior coesione e resistenza al filato composto da numerosi fili. Anche per queste operazioni durante il XIX secolo si passa gradualmente dalle lavorazioni manuale, che fa uso eventualmente di strumenti semplici, a quella meccanica.
Poi si tesse. Si tesse la seta come qualunque altro tessuto, intrecciando fra loro fili disposti longitudinalmente (che costituiscono l’ordito) e fili posti trasversalmente (che formano la trama). Il telaio è una delle macchine più antiche dell’umanità; i più antichi telai sono di tipo verticale ma qui le pezze tessute non possono essere molto grandi, i telai orizzontali invece permettono la tessitura di pezze di lunghezza notevole; il telaio per stoffe a disegno, che dalla solita Cina fu introdotto in Europa forse nel XV secolo ed è tecnicamente più complesso del telaio orizzontale tradizionale, permette la tessitura di stoffe con disegni anche molto elaborati. Il più celebre dei telai a disegno è il telaio jacquard, messo a punto in Francia all’inizio del XIX secolo, che sfrutta un sistema di cartoni forati che comandano il movimento dei fili d’ordito secondo un codice binario: chi è abbastanza poco giovane da ricordare le schede perforate con le quali operavano i computer alcuni decenni fa troverà inaspettate analogie concettuali ed estetiche fra le obsolete schede informatiche di trenta, quarant’anni fa e i cartoni forati dei telai jacquard dell’Ottocento. A fine Ottocento comparvero i primi telai meccanici totalmente automatizzati, in cui però il principio di funzionamento è sempre quello del telaio tradizionale. Ovviamente durante le fasi della lavorazione sono necessarie operazioni di controllo e di misura, su peso, purezza, uniformità, resistenza alla tensione, alla torsione, alla rottura, all’umidità, e per tutte queste misure esistono appositi strumenti: bilance e bilancini, torcimetri, stufe (alcune delle quali sono pregevoli opere d’arte), dinamometri, seriplani (misurano la regolarità e la nettezza dei fili di seta greggia).
Altra importante operazione è la tintura, giacchè quasi mai si usa la seta nel suo colore naturale che è bianco o giallo di varie sfumature; prima si procede alla sgommatura che rimuove in toto o parzialmente la sericina dal tessuto rendendolo morbido e lucente; la tintura avviene in filo o in pezza, oggi usa quasi soltanto coloranti artificiali ed esistono metodi e strumenti diversi per portarla a termine. Alla tintura si associa la stampa, cioè la colorazione di determinate porzioni di tessuto per creare disegni; la più antica tecnica di stampa dei tessuti è quella a planches, simile alla xilografia, in cui tamponi a rilievo fissati su tavole di legno e coperti di inchiostro vengono premuti sul tessuto sotto un peso; concettualmente simile è la stampa a cilindro, dove un cilindro coi disegni a rilievo ruota sul tessuto; la stampa a quadro, che nel secondo dopo-guerra divenne tipica del comasco, appoggia sul tessuto steso orizzontalmente un’armatura a trama fitta attraverso cui passa una pasta colorante. La preparazione dei disegni sui supporti, i cilindri o i quadri è l’ambito operativo della fotoincisione, che oggi fa grande uso dell’informatica, della computer-grafica, dell’incisione tramite plotter e raggi laser. Infine ci sono le numerose operazioni di finissaggio, quali la marezzatura che crea venature con effetto lucido-opaco, la plissettatura che conferisce pieghe a vari disegni, la calandratura che contribuisce alla stabilità, morbidezza e lucentezza del tessuto. Il tessuto di seta, finalmente, può essere messo in commercio.
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