L’identità del disabile è cambiata con il trascorrere del tempo: da uomo mandato sulla terra come punizione degli dei a giullare nelle corti Rinascimentali, da malato incurabile nell’800 sino ad arrivare a un passato per noi non tanto lontano ovvero durante il periodo nazista, quando i disabili erano etichettati come persone che “non meritavano di vivere”: insomma, vissuti atavicamente come uno stigma della e dalla società senza capire che in fondo lo stigma era la società stessa, composta da persone “inabili al pensiero” e vittime di loro stesse, dei loro retaggi (anti)culturali e di ignoranti stereotipi.
Manualità e immaginazione rappresentano due attività capaci di “esistere da
sole” ma che nella loro coesistenza riescono a mettere in moto la grande
macchina della creatività. Anticamente la creatività era vista come una
potenzialità demiurgica, come appannaggio divino. È chiaro che a oggi le cose
sono cambiate e questo concetto così dibattuto nel tempo sembra aver trovato la
sua stabilità effettiva: la creatività è insita nell’uomo. Ergo, da evento
straordinario e prerogativa di una ristretta élite, a elemento quotidiano nella
vita degli individui, parte sostanziale della loro natura, una normale
componente della struttura intellettiva umana al pari della memoria,
dell’intelligenza o della capacità di apprendere.
Creatività chiama arte. Ed è proprio l’arte a dar largo spazio ai diversamente
abili sin dagli inizi del ‘900: l’art des fous, ovvero l’arte dei folli,
diviene un’ulteriore fonte stilistica eterodossa rispetto alla tradizione
accademica con lo scopo di ritrovare la spontaneità, l’originalità,
l’autenticità considerati punti ancestrali dell’espressione artistica. Uno dei
punti focali in merito è stato lo studioso dell’arte, psichiatra e
psicoterapeuta Hans Prinzhorn con il suo saggio datato 1922, “L’attività
plastica dei malati mentali”, che ruota intorno al concetto di Gestaltung
ovvero di «impulso originario». La stessa onda è stata cavalcata da Jean Dubuffet
“padre” dell’Art Brut: spingersi oltre, trovare la spontaneità creativa dei
primordi, la bizzarra forza della visione non ostacolata dal filtro della
ragione, un’arte istintiva, inconsapevole e dissacrante.
Questa premessa sul disagio prettamente psichico, è stata fatta per tracciare
un punto zero, il fulcro di una corrente artistica evolutasi nel tempo. È ovvio
però che il termine disabilità accoglie al suo interno innumerevoli tipologie
ed è altrettanto ovvio che l’arte si è posta per ognuna di queste – quando
possibile, s’intende – come una sorte di panacea, come una terapia per l’anima.
Ma l’arte presenta due componenti fondamentali senza le quali non esisterebbe:
il creatore e l’oggetto creato o, meglio, il soggetto rappresentato. E se sino
ad adesso si è parlato della disabilità atta alla creazione è altrettanto
importante disquisire sulla disabilità che si mostra a favor di camera – e di
pennello – che diviene protagonista.
Nella storia dell’arte non sono stati rari i casi in cui è stata rappresentata
la disabilità: citiamo i nani e le nane di corte di Diego Velasquez, spesso
accostati a oggetti o animali che non fanno altro che evidenziarne la
piccolezza, fisicamente minuti ma estremamente forti nei dettagli quali lo
sguardo o la posizione che occupano nello spazio; gli Alienati di Théodore
Géricault, ovvero ritratti di pazienti psichiatrici affetti da monomanie –
manifestazioni di delirio dovute all’attaccamento ossessivo a un pensiero o
comportamento – dallo sguardo cupo e imbambolato e per terminare – solo con
questi esempi – con gli Autoritratti di Frida Kahlo che si rappresenta nella
sua cruda e perenne invalidità.
Se in passato le disabilità venivano rappresentate nel loro crudo verismo,
probabilmente per dar dignità all’esistenza di questa “categoria” (anche)
artisticamente emarginata, lontani da sfumature emozionali e senza alte pretese
estetiche – in alcuni casi –, nel contemporaneo la musica cambia: basti pensare
alla bellezza di Aimee Mullins, l’atleta paraolimpica che comparve in Cremaster
3, la saga onirica dell’artista Matthew Barney. Bellissima, bionda e dal fisico
statuario con due protesi alle gambe perché amputate all’età di un anno, Aimee
nella saga interpreta due ruoli: il primo quello della figura mitica metà donna
metà ghepardo, nell’altro mette in mostra la sua menomazione impreziosita da
stivali di vetro, come una novella Cenerentola, avvolta in un abito bianco che
non lascia spazio all’immaginazione.
Vi è chi decide, come Matthew Barney, di osare uscendo fuori dai consueti
canoni che vedono protagonisti modelli di bellezza stereotipata: è l’artista
Marc Quinn, membro noto della Young British Artist. L’artista indaga su una
“percezione altra” di bellezza: fantasia e piacere estetico lasciano spazio
alla provocazione e all’indignazione, sostantivi pilastro dell’arte
contemporanea ma con cui molti non riescono a fare ancora i conti, declinandoli
come inaccettabili. La “dottrina”, difatti, insegna che l’arte è bellezza, che
bellezza è classicità che a sua volta è serenità, limpidezza. Ma Marc Quinn
sfida il luogo comune con la serie “The Complete Marbles”, in cui persone
affette da malformazioni fisiche sembrano discendere da antichi modelli
classici, in una poetica oscillante tra il disturbante, l’esecrazione e il
sublime. A questa serie appartiene la statua – 3 metri e mezzo per undici
tonnellate – in marmo bianco di Carrara della pittrice focomelica Allison
Lapper, sicuramente la più famosa in quanto piazzata nel 2005 a Trafalgar
Square. Allison viene rappresentata nella realtà del suo corpo “mutilato” dalla
malattia, senza gambe e senza braccia. Un corpo sicuramente a metà ma eroico.
Sì, perché la donna viene presentata nel momento più bello della vita ovvero la
gravidanza, miracoloso per tutte ma ancor di più per Allison: quel pancione ne
esalta il coraggio, l’energia e la bellezza. La stessa Lapper definirà l’opera
«un tributo alla femminilità, all’handicap e alla maternità».
Ammiratrice del sopracitato Matthew Barney, è la giovane artista Mari Katayama,
attualmente sulla cresta dell’onda poiché “supernova” della Biennale di Venezia
del 2019 e dell’ultima edizione della fiera internazionale Paris Photo, con uno
stand della galleria interamente dedicatole. Affetta sin dalla nascita da
emimelia tibiale, ovvero una patologia che non consente lo sviluppo degli arti
inferiori – e nel suo caso anche di una mano, molto simile a una chela di
granchio – a nove anni decide di andare incontro a un volontario e angosciante
epilogo: l’amputazione delle gambe per non condannare la sua vita su di una
sedia a rotelle. Ma lei ha deciso di star in piedi, anche se non proprio sui
suoi arti: dunque ha dovuto riacquisire daccapo le primarie abilità. C’è voluto
un anno per “imparare a camminare” con le protesi e, purtroppo, è scontato
asserire che questa situazione di sofferenza ha attirato l’ignorante ilarità
dei giovani che hanno fatto di lei la vittima del loro bullismo. La reclusione
in casa le è sembrata la via più semplice per fuggire da tutto ciò. Lei e la
sua disabilità, chiuse in quella stanza, luogo dove Mari ha iniziato a dar vita
ai suoi autoritratti con indosso una parrucca bionda, alla stregua di una
contemporanea Frida.
Inizia così a lavorare sul suo corpo: pizzo, conchiglie, cristalli swarovski,
intarsi e ricami, al fine di realizzare protesi diverse, creative, artistiche o
estensioni dei suoi arti, per poi infine fotografarli. Fautrice e protagonista
delle sue stesse foto, Mari si erge a scultura vivente, mostrandosi così nella
sua natura, come destino ha deciso, senza protesi. Non è artista per vocazione
ma per necessità: lasciarsi guardare, per scoprire meglio se stessa. E ciò che
regala attraverso i suoi scatti è tutto tranne che l’angoscia o la tristezza
per una giovane ragazza: è solenne e austera ma il suo sguardo è seducente, erotico.
Narra un concetto di bellezza diverso da ciò nel quale siamo immersi ove la
perfezione è esente da crepe o cicatrici ove tutto deve brillare per rendersi
appetibile: lei si rende desiderabile, come i suoi lustrini, rendendo le sue
imperfezioni perfette, facendoci focalizzare non sulla bellezza ma sul valore
di questa superando beceri cliché che costringono i più. Permette di guardare e
capire che la disabilità non è un limite e che il limite stesso esiste
solamente negli occhi di chi guarda ma soprattutto nella mente di chi non
pensa.
Diverso il discorso per la fotografa Diane Arbus la quale, attraverso le sue
foto scattate con una Nikon 35mm, vuole cogliere proprio quelle sfumature che
prima venivano accantonate favorendo un aspro realismo, che tuttavia continua a
esistere nei suoi lavori: niente paillettes o lustrini per i protagonisti delle
sue opere, uomini e donne considerati “personaggi” o peggio ancora “freak”,
fenomeni da baraccone ai quali la loro diversità ha tolto la connotazione o
meglio la dignità di persona. Nani, giganti ciechi, giovani affetti dalla
sindrome di down sono colti nella loro esistenza privata, nella quotidianità
nella quale la fotografa entra con fare voyeuristico: prima di esser foto sono
esseri umani con i quali la Arbus instaura un legame personale, spesso di
amicizia, probabilmente per poter cogliere al meglio i dettagli più profondi e
regalare un’immagine più intimistica, poetica ed emozionante quanto veritiera e
scomoda – sia al pensiero che alla vista – del soggetto.
I suoi, infatti, non sono semplici scatti ma sono un manifesto iconografico
della diversità e nel contempo una aperta lotta alla discriminazione. Mostra
tutto ciò che molti fingono di non vedere o, peggio, che non esista e così
facendo non fa altro che renderci partecipi di una realtà altra, una realtà
diversa ma esistente che potremmo sforzarci di capire, di indagare. Tuttavia,
nonostante il lirismo soggiacente, verrà soprannominata come «La fotografa dei
mostri», appellativo che chiaramente mai accettò poiché andava contro quella
che era la sua visione. Morì suicida dopo una lunga vita di depressione nel
luglio del 1971. «Quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo
dell’emarginazione… Quasi tutti attraversano la vita temendo le esperienze traumatiche.
I mostri sono nati insieme al loro trauma. Hanno superato il loro esame nella
vita, sono degli aristocratici. Io mi adatto alle cose malmesse. Non mi piace
metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la
metto a posto. Mi metto a posto io.»
Da Eco Internazionale del 08.03.2020
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