Non ho vissuto la guerra. Quasi nessuno di noi ha passato la guerra. Ma avendone sentito parlare mi vengono alla mente storie di gente in attesa del notiziario di Radio Londra, di sirene che suonano all’improvviso, di anime in fila per la spesa e di un costante stato d’ansia. Un’incertezza affamata di briciole di speranza. Combattiamo così, in questo 2020. Senza neppure un interlocutore da prendere di mira. E noi persone disabili, con disabilità gravissima, in un’incertezza da battaglione dimenticato dai generali. Lo stesso senso di sconforto. È terribile sentirsi abbandonati dalla madrepatria.
In verità molti volontari non ci hanno abbandonato. Ci stanno vicini gli
amici, quando ci sono e quando non sono sopraffatti dalla paura. Ci stanno
vicini gli assistenti domiciliari, quando sono ben attrezzati e non hanno
titubanze. In verità in molti casi non ci stanno vicini affatto. Sono tante le
famiglie che denunciano l’abbandono dell’assistenza domiciliare. Gli assistenti
hanno timore, non sono dotati dell’attrezzatura necessaria per trattare il
paziente infetto, pertanto certi non se la sentono di fornire il loro lavoro.
Teniamo conto che le persone che vanno ad assistere quasi mai sono affette da
virus. Non li giudico, elogio quelli che vanno avanti. Non perché vadano
elogiati, in quanto fanno il mestiere che hanno deciso di fare e si sa che in
Italia può capitare di fare il proprio mestiere in condizione d’emergenza,
bensì perché restano coerenti con il diritto alla vita.
Quando l’assistente ti abbandona la ferita è profonda e duplice. Da un canto ti
manca la manodopera per assistere il familiare disabile. Dall’altra ti senti
etichettato. Di un’etichetta brutta, come le altre tante affibbiate, per cui tu
sei la persona che è pericolosa da assistere quasi a prescindere. È pericoloso
muoversi per venire da te e potresti essere veicolo di non si sa quale virus.
Le famiglie con disabilità, in linea teorica, sono le più protette dal virus,
proprio perché per ragioni vitali prendono precauzioni per non essere
contagiate. E sono costituite da persone che non escono di casa con frequenza. Recluse
in casa ci vivono da sempre.
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, noi di più. Il nostro senso di
precarietà, quali persone con disabilità a domicilio (perenne) è acuito dalla
condizione dei membri della famiglia. Attorno alla persona con disabilità
spesso ci sono persone fragili. Genitori ultrasessantacinquenni che avrebbero
diritto alla più totale tutela. Quindi ti prende una paura folle e considerata
perché ti senti precario nella precarietà. Sai di non poter uscire e cerchi di
non farlo. Ma sai che se non esci tu non c’è uno Stato che fa le cose al posto
tuo. Già prima c’era poco, adesso non c’è del tutto. Quindi esci.
Maledettamente protetto e accorto nell’osservare tutte le precauzioni del caso,
esci. Per andare a fare la spesa, in farmacia, a prendere il pane. E non c’è
nessuno che ti fa passare davanti perché hai più bisogno, perché nessuno sa che
hai più bisogno. E gli altri parimenti hanno bisogno.
Quelli che stanno a casa temono. Gli viene una paura pazzesca sapendo che sei
fuori e li espone a un rischio che non vedranno subito. Si vive nell’angoscia,
per quanto i contatti con l’esterno si riducano all’osso. Si cerca di stare
protetti e uniti. Non dovremmo abbracciarci, ma come si fa? Fra di noi, fra noi
familiari stretti stretti lo facciamo. Tanto siamo fra di noi e vivendo nello
stesso ambiente, dovendoci prendere cura pratica gli uni degli altri, ci
infetteremmo comunque. Non è un ragionamento sanitariamente corretto. Non
fatelo, voi. Non si fa, aumenta il rischio di contagio. Ma a noi, a noi che
siamo protetti dalla bolla dei contatti ridotti e siamo respinti
nell’isolamento, per favore non toglieteci l’intimo abbraccio. A mani e volti
lavati, persino con la mascherina, ma non toglieteci il potere dell’abbraccio.
C’è quella storia di mamma Pinuccia che si è inventata la favola di un drago
cattivo che vuole mangiare tutti per togliere dal figlio la paura di non
uscire. Con la chiusura dei centri diurni, altro grande problema, si è convinto
di essere ammalato, con un aggravamento del suo stato d’animo incredibile.
Mamma Pinuccia si è improvvisata favolista. I genitori (i familiari) delle
famiglie disabili sono fatti così. Ognuna merita altro che il Nobel dei Nobel.
Noi persone disabili, col cuore spezzato. Già vedendo i miei genitori
quotidianamente nel loro amorevole afflato d’assistenza soffro il dolore di chi
riceve senza poter fare. In questo periodo è difficile restare indifferenti
vedendo i più resistenti della truppa, fragili pedine anch’essi, affrontare a
viso aperto il nemico. Non ci si riesce. Il cuore ti trema. Paura, amore e
speranza si mescolano in un’indistinta emozione da nodo alla gola.
Noi stiamo così, combattendo la nostra guerra, indignati con chi non rispetta
il coprifuoco. E con i negozi on-line che dicono di dare precedenza alla
consegna di certe categorie di persone ma non verificano che chi acquista
faccia parte di quella categoria. Siamo delusi da chi si dimentica di noi. C’è
il personale sanitario in prima linea negli ospedali. Ma nelle trincee delle
case disabili il fronte è sguarnito.
I discorsi dei ministri non ci toccano. Nessuno parla di noi. Siamo più
invisibili del solito. Ci farebbe piacere sentire una parola di conforto. Come
quando le linee in rotta sentono la voce del condottiero e si rianimano. Verrebbe
voglia di issare bandiera bianca, ma non abbiamo bandiera. Non abbiamo un
nemico cui arrenderci. E arrenderci sarebbe la morte e noi non vogliamo morire.
Ci vorrebbe un rinforzo. Ci vorrebbe che lo Stato trovasse il personale per
farci la spesa, comprarci le medicine, assisterci nelle esigenze sanitarie. In
Italia non si sa mai quanti disabili ci sono, dove sono e quali problematiche
hanno. Quindi ci vuole un ramo dedicato nel momento dell’emergenza. Bisogna
creare una struttura che sopperisca alla mancanza di personale e materiali. E
bisogna finanziare le associazioni di volontariato che fanno assistenza. Forse
fornire più soldi nell’emergenza per la non autosufficienza potrebbe portare a
un aumento dello stipendio del personale e questo potrebbe rendere conveniente
per gli operatori dell’assistenza domiciliare non abbandonare il mestiere.
Si potrebbero fare tante cose. Non se ne fa nessuna. Noi manteniamo le
posizioni, ma lo Stato ci uccide d’inedia.
di Antonio Giuseppe Malafarina da Il Corriere della Sera del 19.03.2020
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